Vicino a te
La prima volta che lo vidi bardato da sala operatoria non lo riconobbi nemmeno. Nella sua divisa verde, con la cuffia in testa, la mascherina e gli occhiali protettivi non sembrava lui e mi faceva anche un po’ paura. Mi pareva un Power Rangers anche se un po’ più brutto perché non aveva scelto la divisa fucsia. Poi alzò gli occhiali e abbassò la mascherina quel tanto che bastava per farmi riconoscere un sorriso familiare e quella barba che era solo sua. Il mio papà.
Ero piccola ma mi ricordo ancora il rumore gommoso degli zoccoli che calpestavano il pavimento, il fruscio dei camici che svolazzavano dietro passi veloci, i rumori metallici dei macchinari a cui erano collegati i pazienti. E quell’odore, l’odore di disinfettante che ti entra nelle narici e non ti abbandona fino all’uscita.
Io mi chiedevo “Ma come fa a stare con questa puzza tutto il giorno?”. Invece per lui quell’odore sapeva un po’ di casa, di dolore e speranza, di forza e coraggio, di limite e possibilità. Lui che aveva scelto di lavorare in ospedale, di stare con i malati, di esserci per salvare vite umane sacrificando qualche weekend con noi, qualche cena, qualche coccola della buona notte.
Perché fare l’infermiere è una vocazione. Non ti ci puoi improvvisare. Ce l’hai li tra cuore e braccio quella voglia di dare, consolare, accompagnare fino alla fine.
Da quella volta abbiamo iniziato a giocarci a casa: “Tu fai il malato e io ti curo” ci comandavamo io e mia sorella. Mettevamo una mascherina, infilavamo i guanti e prendevamo a imitare i nostri grandi. Poi abbiamo smesso perché siamo cresciute, perché quello era solo il lavoro di papà, un lavoro come tanti altri papà hanno il loro.
Fino a quando ci ripensi. Ripensi a quelle mascherine usate per gioco che oggi sono sulla bocca di tutti. Ripensi a cosa significa stare in mezzo ai malati, al dolore che ti porti a casa, al bisogno di parlare di tutto fuorché di quello che accade tra una letto ospedaliero e l’altro. Ma non ce la fai perché il campo di battaglia è uno e quando ci entri ti pervade.
Allora le telefonate diventano rapide e in video lo vedi stanco ma lo senti solo suonare la chitarra e preoccuparsi che tutte noi, le donne delle sua famiglia, stiamo bene. Noi a casa a lavorare. Lui a correre tra febbri, polmoni affaticati, gente che soffre.
E io non lo so cosa sta accadendo. Però me lo immagino perché gliel’ho visto fare mille volte durante le visite a domicilio. L’ho visto sedersi vicino a una persona malata, prendergli la mano e accarezzarla, parlare sottovoce con un tono rassicurante che faceva stare bene anche me. L’ho visto alzare gli occhi al cielo e pregare in silenzio. L’ho visto essere forte quando qualcuno era fragile per trasmettere quell’energia che fa andare avanti.
Adesso si sentono gli uccelli cantare e le campane suonare. Non sembrerebbe di vivere in città se non ci fossero le ambulanze che sfrecciano con le loro sirene urlanti. Allora io taccio e mia figlia mi prende la mano e mi dice “Mamma tranquilla, vanno dal nonno!”
E penso che se lei lo vedesse oggi il nonno lo vedrebbe come io lo avevo visto allora: un super eroe un po’ più brutto perché non ha la divisa del suo colore preferito. Ma lo riconoscerebbe per quello che è: una persona con i super poteri che in questo momento maledetto c’è e non ti lascia solo.
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