La gioia di un saluto inaspettato
Sono un tecnico di radiologia ed ho lavorato in ospedale fino al giorno della pensione (8 maggio 2020). Durante il periodo di lockdown era normale che noi tecnici della radiologia tradizionale fossimo chiamati ad eseguire radiografie al letto di pazienti ricoverati nei vari reparti Covid. Personalmente ho eseguito la prima radiografia del torace al primo paziente Covid ricoverato a Cuneo, trasferito da Torino dove non avevano più posti letto disponibili. Ma la storia che intendo raccontare è un’altra. Nel nel corso di un turno di lavoro, come abitualmente capitava, sono andato a fare delle radiografie nel reparto di Medicina d’urgenza, che all’epoca era zona rossa Covid. Tra i vari pazienti a cui erano richiesti Rx, mi sono trovato di fronte ad una ragazza giovane, sui 35 anni, con intorno alla testa il casco Cpap, visibilmente molto sofferente. Successimamente ho saputo che aveva appena partorito. Nei giorni successivi mi è capitato sovente di pensare a lei e, se potevo, chiedevo sue notizie ai colleghi infermieri. Dopo un 10-15 giorni sono ritornato in Medicina d’urgenza, sempre per eseguire radiografie. Per gli esami in quel reparto, all’epoca usavamo un apparecchio piuttosto vecchio che non permetteva di visualizzare subito l’immagine della radiografia. Quelli nuovi erano stanziati nelle rianimazioni per evitare spostamenti rischiosi per la diffusione del contagio. Procedevamo quindi secondo questa prassi: uno di noi eseguiva gli esami e quindi passava le cassette impressionate ad un collega che aspettava in zona pulita, il quale procedeva alla digitalizzazione in radiologia e quindi comunicava se le immagini fossero a posto. Questa operazione poteva durare dai 15 ai 30 minuti, a seconda del numero di radiografie. Durante questo intervallo di tempo il primo tecnico rimaneva nel reparto per evitare di cambiarsi più volte perchè gli indumenti protettivi scarseggiavano. Così, quel giorno, passeggiavo nel corridoio del reparto, attendendo la comunicazione del collega Simone. Dalla porta di una delle stanzette singole vedo una paziente che, seduta sul letto, con gli occhialini dell’ossigeno, mi saluta con la mano. Subito restituisco il saluto, ma non ci faccio troppo caso. Poi ritorno indietro e mi soffemo sulla soglia. Lei mi saluta di nuovo e le chiedo se ci conosciamo. Non mi sembrava possibile essere facilmente riconosciuto con tutta la bardatura protettiva addosso. La ragazza mi dice che le avevo fatto le radiografie qualche giorno prima e si ricordava di me. Le dico: vedo che stai molto meglio, sono contento, come va? Mi risponde che sta abbastanza bene e che la stanno per trasferire all’ospedale di Alba (da cui proveniva). Era contenta perchè si sarebbe avvicinata alla sua bambina neonata, all’altra figlia e alla sua famiglia. Conservo questo ricordo con emozione e dolcezza: l’essere stato riconosciuto in un momento di forte sofferenza, la conclusione positiva di una storia che per la giovane età della paziente e per la sua situazione mi aveva particolarmente colpito.
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