In punta di piedi nella vita delle persone
Sono un medico igienista e lavoro nel Dipartimento di Prevenzione della ASL di Lecce da ormai quasi 25 anni, la mia vita professionale fino all’emergenza covid–19 è trascorsa tranquilla tra leggi, norme provvedimenti, verifiche e sopralluoghi, un lavoro molto tecnico, privo di grandi emozioni, ma soprattutto molto lontano da quello che nell’immaginario comune si intende comunemente come lavoro del medico.
Io non avevo più un rapporto medico paziente dai tempi ormai lontani della guardia medica, del pronto soccorso o delle cliniche private che sono i luoghi di lavoro dei miei esordi.
Già dai primi di gennaio arrivavano sempre più insistentemente le notizie dalla Cina della nuova epidemia e verso la metà di febbraio nel mio Servizio in via preventiva, abbiamo cominciato a muovere i primi passi per organizzarci all’arrivo del terribile nemico. Il 21 febbraio avevo preso un giorno di ferie e la notizia del primo caso di Codogno l’ho appresa dalla Tv di un esercizio commerciale, quella sera avevo organizzato una cenetta fra parenti, quello è stato l’ultimo momento conviviale e spensierato prima che tutto cambiasse. Era solo una questione di giorni e anche il nostro tranquillo e solare Salento sarebbe stato travolto dall’uragano covid 19 che avrebbe comunque sconvolto le nostre vite.
Subito è iniziato lo stato di allerta fino al 1° marzo giorno in cui abbiamo registrato il primo caso positivo, un artigiano di un paesino dell’hinterland leccese che era tornato da un viaggio di lavoro proprio in Lombardia. Da quel momento è iniziata la caccia ai contatti e la recinzione dei focolai con i cosiddetti cordoni sanitari meglio conosciuti come quarantene dei soggetti positivi e dei loro contatti per arginare e bloccare la diffusione del virus. Ogni persona contattata e bloccata significava un posto di blocco contro il virus! Migliaia di telefonate tra quelle in entrata e in uscita, il nostro Servizio improvvisamente era diventato un imponente call center sanitario dove giungevano le più disparate richieste di aiuto. La cosa davvero incredibile è come sia io che i miei collegi che in tempi normali, avendo un lavoro programmato e pianificato, avremmo guardato l’orologio per decidere quando smettere di lavorare, per una straordinaria forza attrattiva, dettata dall’emergenza, a prescindere dalle disposizioni di servizio, siamo rimasti incollati alle nostre postazioni per intere giornate, incapaci di allontanarci, senza sabati o domeniche libere, senza più pensare al tempo che passava, andando avanti ad oltranza non sentendo più neanche la stanchezza. Spesso è capitato che quando ero sul punto di andare via per tornare a casa, arrivava una nuova segnalazione e bisognava ricominciare il giro di telefonate, non si doveva perdere tempo, bisognava tagliare le gambe al virus!
In punta di piedi sono entrata nella vita delle persone che ho contattato, ho raccolto la loro storia clinica ma spesso le loro storie di vita, le loro paure e angosce, i loro problemi. Le telefonate di monitoraggio delle loro condizioni cliniche erano diventate un appuntamento quotidiano di cui sia loro che io non potevamo più fare a meno al di là dei protocolli, sentirli e sentire che stavano bene era motivo di forza e di speranza, se stavano bene o miglioravano significava che era possibile farcela, che si poteva guarire! Purtroppo non sempre è stato così alcuni di loro hanno dovuto subire un ricovero ospedaliero e talvolta anche in terapia intensiva, a cui non è seguito il lieto fine. È stato terribile e estremamente impegnativo dal punto di vista emotivo, cercare di dover sostenere o consolare i parenti chiusi in quarantena e lontani, di coloro che sono deceduti in ospedale, far fronte a un dolore immenso scaturito anche dal fatto di non aver potuto dare ai propri cari il loro ultimo saluto. Come arginare la disperazione di una moglie innamorata che viveva quasi simbiosi con suo marito e di una ragazzina adolescente, figlia amatissima e coccolata da un papà che è andato in ospedale il 15 Marzo per non fare più ritorno a casa, morendo il giorno della Domenica delle Palme? Lo strazio di quella famiglia mi ha molto colpita, il mio non è stato un semplice atteggiamento empatico ma molto di più.
La morte di ognuno di coloro che in qualche modo avevo seguito direttamente o tramite la sorveglianza sanitaria dei parenti era una amara sconfitta, una triste perdita e un doloroso presagio. Infatti perdere un grande affetto è toccato anche a me, quando con una telefonata nel cuore della notte del 19 aprile, mi è stato comunicato che la mia mamma domiciliata presso una RSSA dove il virus non è riuscito ad entrare se ne era andata per sempre dolcemente nel sonno. Mia madre aveva 93 anni compiuti e non è morta né di corona virus né con il corona virus ma nel tempo del corona virus e anche a lei per le disposizioni di legge è stato riservato lo stesso trattamento di chi muore così, un breve saluto e una sobria benedizione. Per le norme di sicurezza non la vedevo da circa un mese e mezzo se non con le video chiamate, era in un precario equilibrio di salute e sinceramente ho temuto sempre che potesse morire da un momento all’altro, che non l’avrei vista mai più e ho pregato che non soffrisse. È stata graziata perché la sua è stata una morte dolce, le è stata risparmiata la sofferenza, la paura di un ricovero in solitudine e la consapevolezza di essere sul punto di morire. So che era contenta del lavoro che stavo svolgendo e ne era orgogliosa, infatti le avevo mandato un video della parata delle Forze dell’ordine in omaggio all’attività svolta dal Dipartimento di Prevenzione, solo due settimane prima che morisse. Aveva accettato serenamente anche la lontananza da me e mia sorella perché aveva compreso perfettamente quello che stava succedendo e le misure messe in atto per la sua sicurezza e di tutti gli altri ospiti della struttura, ma sicuramente anche lei sia pure indirettamente è stata vittima di questa pandemia. Certo tutto questo può solo lenire il lutto che forse non ho ancora del tutto elaborato, considerato il turbinio del momento che non mi ha consentito di realizzare fino in fondo la sua morte ma che sicuramente mi ha avvicinata ancora di più ad un dolore universale che ha colpito l’umanità. A volte penso che sia ancora lì ad aspettarmi e forse è così!
È inutile negare che in fondo in fondo io ho avuto tanta, tanta paura per me e non solo ma soprattutto per i miei cari. La paura la tenevo a bada durante il lavoro ma la sera quando tornavo a casa, in particolare al momento di andare a dormire mi sentivo prendere dall’ansia di potermi ammalare o di poter portare il virus a casa a mio figlio o a mio marito. Una notte anche io sono stata male, decimi di febbre, dolori muscolari, mal di testa intenso, una sintomatologia suggestiva di una forma frusta di covid19. Ho chiesto che mi venisse fatto un tampone, in quelle ore di attesa del risultato mi è sembrato di restare sospesa in una sorta di limbo fatto di ricordi, di paure e speranza, il minimo che mi potesse capitare in caso di positività era una quarantena, in isolamento dalla mia famiglia.
È facile dire di restare in quarantena ma quando le quarantene durano un tempo lunghissimo diventano angoscianti e insostenibili. Percepire l’angoscia di intere famiglie chiuse in casa per oltre due mesi mi ha costretto ad assumere impropriamente oltre che il ruolo di medico, quello di consolatore o di assistente sociale. Abbiamo diviso le famiglie pur di liberare dalla quarantena chi stava bene ed era negativo, questo per permettere la possibilità di qualche piccolo guadagno a chi diversamente non avrebbe avuto mezzi di sopravvivenza o per coloro che avendo un lavoro socialmente utile come gli operatori sanitari dovevano rientrare al lavoro.
Con molti dei miei pazienti si è instaurato un rapporto di fiducia e di sincero affetto, ho imparato a riconoscere i loro numeri di telefono sul cellulare senza averli memorizzati e sono stata per alcuni di loro, per giorni e giorni, un punto fermo di riferimento, talvolta l’unico e loro per me hanno costituito una ragione forte per andare avanti sentirmi viva e utile, superare la stanchezza, lo sconforto e la desolazione. Non nascondo che qualche volta sono stata presa dalla curiosità di dare un volto alle loro voci.
Qualche giorno fa ho sentito per telefono il mio primo paziente per cui ho chiesto il ricovero, un militare. Un sabato sera del mese di marzo, erano ormai le 20 passate quando mi è giunta la segnalazione di una giovane dottoressa della guardia medica, il paziente che era già in sorveglianza perché contatto di un caso positivo e già da qualche giorno accusava febbricola tosse e malessere, si era improvvisamente aggravato. Prima di contattare il 118 l’ho chiamato e ho capito che era davvero peggiorato nel giro di poche ore, aveva una tosse soffocante che non gli permetteva di dire due parole insieme, non c’era tempo da perdere, il ricovero è stato immediato. Ho continuato a chiamarlo anche in ospedale finché ha potuto rispondermi, poi dai suoi familiari ho saputo che nei giorni successivi è stato in condizioni davvero critiche ma alla fine ce l’ha fatta a tornare casa dove ora è in convalescenza e a breve donerà il plasma per i nuovi ammalati di Covid19.
Il tempo da febbraio a maggio è volato in un baleno, è stato un periodo breve ma intensissimo in cui ho vissuto in soli tre mesi un concentrato di esperienza umana e professionale che difficilmente si vive in una intera carriera. Ho vissuto un momento epocale e ho scritto anche io qualche pagina di una storia che non verrà dimenticata, le emozioni sono state tante, e anche le soddisfazioni professionali sottolineate dai risultati raggiunti.
Quando tutto è cominciato temevo che non ce l’avremmo fatta, noi al sud con la ben nota penuria di mezzi avremmo fatto la stessa fine della Lombardia! Ma non è stato così, abbiamo retto il colpo e a questo hanno di certo contribuito la strategica regia e le menti brillanti di chi ci ha guidato, il lockdown, lo spirito di squadra e il lavoro enorme che è stato fatto circa 6000 persone messe in quarantena e oltre 95000 telefonate totali in entrata e in uscita, ma anche i nostri conterranei hanno capito e sono stati collaborativi pagando con la propria libertà il risultato ottenuto. Ho toccato con mano la forza incredibile di cui noi umani siamo capaci anche quando crediamo di non farcela.
Quello che mi è rimasto di quei giorni è l’eco delle parole di gratitudine, riconoscenza e stima di coloro che ho seguito, lo spirito di squadra, la gioia e il brindisi del primo giorno che non si sono registrati positivi, nella nostra provincia, la collaborazione di alcuni colleghi, alcuni dei quali giovanissimi, conosciuti solo per telefono, che con il loro entusiasmo, la loro solerzia, il loro impegno, mi hanno portata indietro nel tempo quando appena laureata ero anche io fortemente motivata.
Di certo questa esperienza ha risvegliato per molti di noi entusiasmi, voglia di fare e capacità ormai sopiti dal grigiore del tempo e della routine quotidiana, mettendo in evidenza e restituendo il giusto valore e significato al lavoro dell’igienista ai più poco conosciuto.
Nel frattempo da qualche giorno è finito il lockdown previsto per il contenimento dell’epidemia, il 21 maggio in un pomeriggio azzurro e di sole anch’io sono uscita dopo due mesi e mezzo di clausura tra casa e lavoro in cui non ho avuto il tempo di pensare altro, ho provato un senso di leggerezza e la voglia di ricominciare magari ripartendo da uno shopping in modalità guanti e mascherina. La vita è un miracolo ed è incredibile la sua forza travolgente, così come la voglia di andare avanti, svoltare pagina e tornare a sorridere pur se in modo socialmente e umanamente nuovo. Tuttavia anche se abbiamo tanta voglia di dimenticare dobbiamo ricordare che il nemico è sempre in agguato, probabilmente ci ha concesso solo una tregua e noi dobbiamo essere pronti a fronteggiare un nuovo attacco.
Medico ASL Lecce
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