Il Callista di Ghitina
Ci sono persone che nella vita meritano essere ricordate, non per quello che hanno fatto o detto, ma per il semplice fatto di aver avuto la fortuna di conoscerle. Quelle persone che senza la presunzione di insegnarti qualcosa ti lasciano molto.
. Ghitina, la chiamerò così, è una di queste persone che ricordo con piacere. Abitava in montagna, nella frazione più alta del comune, luogo d’ origine del marito Giuseppe. Lei arrivava dalla valle confinante. I valligiani, almeno un tempo, consideravano “furustera” (forestiera), chi proveniva dalle frazioni vicine o dal capoluogo e viceversa. Allora, le donne, erano difese anche con violenza. Quante scazzotate fra giovanotti provenienti da contrade vicine per difendere il possibile frutto dell’ amore femminile, come se ogni agglomerato di case fosse un harem.
Chissà come si saranno conosciuti Ghitina e Beppe, il marito? Chissà, non gliel’ ho mai chiesto. Forse ad una festa paesana dopo una bella scazzottata, forse da parenti comuni o forse per concordato fra genitori. Sta di fatto che erano una coppia, a mio vedere, ben riuscita ed affiatata.
Cominciai a recarmi in quella casa molti anni fa perché Beppe si era ammalato di una malattia allora incurabile. La mia frequentazione, per forza di cose si era intensificata col passare del tempo: da mensile a settimanale ed infine giornaliera.
Quanto mi piaceva andare in quella casa! Ricevevo sempre un gran senso di umanità nonostante che il dolore sia sempre appiccicato alla mia figura come un’ombra. Beppe viveva la sua malattia con estrema pazienza e compostezza. Mai un lamento, una imprecazione contro il fato. Mi riceveva sempre con un sorriso. Lo ricordo seduto sul vecchio divano dalla struttura in ferro con un cuscino dietro la schiena. Sempre vestito, mai in pigiama, con la sua camicia di flanella a quadri grossi rossa e nera e i suoi pantaloni di velluto a coste fini, quelli della festa, come se dovesse aspettare una persona importante. Con la dignità che gli apparteneva, mai avrebbe potuto farsi vedere malato e tanto meno in pigiama. Stava seduto nell’ angolo, con il braccio sinistro lasciato cadere sulla parte del divano libera e la mano distesa rivolta in alto, aperta come per raccogliere ancora una volta le cose che la sua dura vita gli aveva dato. Un po’ di traverso col busto, come dovesse seguire quel braccio lasciato lì. Portava sempre un berretto, il “purilo”, una specie di basco blu scuro, di panno , ma con l’ala più stretta dell’ originale, che portavano sempre i nostri montanari e che aveva molti usi. Quando mi vedeva, solo allora quel braccio si alzava per togliere il berretto e con un sorriso mi accoglieva. All’ inizio si alzava con fatica, usando il braccio destro e stringendo con la mano quel pomello di ferro del divano e facendo leva con quel braccio che, ancora forte, era stato tutta la sua vita lavorativa. Anche Ghitina mi aspettava sulla porta, sempre con il grembiule pulito appena indossato che portava ancora i segni delle piegature del ferro da stiro usato per distenderlo dopo l’asciugatura e riporlo pulito nel cassetto. Con un sorriso disegnato sul volto, di quelli che vengono dal cuore nonostante il dolore che portava dentro, mi faceva entrare. Passavo in un corridoietto quasi buio ed accedevo alla cucina. Il pavimento, forse in cemento, era stato appena lavato, e la cucina era sempre in ordine. Sul tavolo mi aspettava un vassoio con la tazza da caffè di quelle belle, sul piattino era posato il cucchiaino e vicino la zuccheriera. La caffettiera era già pronta, come su una sedia era pronto il catino con la brocca d’ acqua, la saponetta, sempre nuova, e l asciugamano di lino profumato .
” Dutur i but su il caffè, ne cu ru pia vurunte.”( dottore, metto su il caffe che lo prende volentieri)
Ed io rispondevo sempre con la stessa affermazione:
” Grazie, volentieri, ma non lo prendo da solo, il caffè va preso in compagnia” .
Il nostro era diventato ormai una rituale che si ripeteva ogni volta nello stesso modo, con gli stessi ritmi, con le stesse parole, come per ricordare ad entrambi che finché sarebbe durato questo rituale, sarebbe durato Beppe.La mia visita finiva sovente con lei che andava in cantina e arrivava con una forma di formaggio, un sostentamento economico importante per la famiglia, che mi veniva donata. Rivivo ancora ogni suo gesto: con uno straccio la puliva e la deponeva su un ampio foglio di carta bianca, quella che usava per avvolgere il burro, e con perizia iniziava ad avvolgerla. Ricordo perfettamente con quanto amore ripeteva quel gesto. Poneva la forma rotonda ben al centro del foglio, misurando con la vista che fosse proprio al centro, e, se non lo era, con piccoli tocchi la spostava, poi prendeva la parte lontana del foglio e la rivoltava sulla forma rotonda e, mentre la teneva con una mano, con l’ altra ripiegava l’ altra parte. Tenendo insieme i due fogli faceva poi le orecchie alla carta ai due lati vu7oti
e lo infilava prima da una parte e poi dall’ altra sotto la forma affinché il pacchetto si presentasse bene.
Ho sempre osservato quei movimenti con attenzione anche se discorrevo con Beppe. Mi davano un senso di armonia, perfezione. Mi comunicavano cura nelle cose. Può essere considerato banale avvolgere un formaggio, ma per me non lo è mai stato come lo faceva Ghitina. In quel gesto si materializzava tutta la riconoscenza, l’affetto che nutriva nei miei confronti. La sua gratitudine diventava tangibile non solo nel gesto di donare, ma nell’ affetto che metteva nel farlo.
Beppe ci lascia, la vita continua, la consuetudine con Ghitina si interrompe ed anche a me, rimane una parte di vuoto. Di tanto in tanto ci vediamo in ambulatorio, ma poca cosa, Ghitina ha sempre paura di disturbare.
Trascorrono gli anni, ormai Ghitina ha passato gli 80 da un po’, io non ricordo più l’esattezza dell’ età. La sua malattia, a cui non ha mai dato molto peso, si complica. Ad un piede non arriva bene i l sangue, il piede si gonfia, fa un male terribile, diventa scuro, freddo, viola. Sentiamo lo specialista che intende amputare il piede. A questa “feroce” proposta terapeutica, lei molto fermamente e senza scomporsi rifiuta.” Piuttosto muoio, e muoio con i miei due piedi”.
Ho sempre ammirato questa scelta. L’ho sempre giudicata come espressione di una grande dignità della vita e di una profonda accettazione di temporalità di essa.
Di fronte a tanta fermezza cosa posso fare se non accettare la sua volontà ed ingegnarmi per curarla al meglio? Mi consulto con le mie stupende infermiere per mettere insieme le nostre esperienze. Saranno loro che, come sempre, avranno il compito più gravoso e complesso da svolgere ed insieme escogitiamo un piano di intervento che proponiamo alla figlia . Sarà un lavoro lungo ma confidiamo in bene. La figlia, persona determinata come la mamma, fiduciosa acconsente e si rende disponibile a fare ciò che le proporremo. Dovremo trattare il dolore con dosi di oppioidi che potranno fare perdere momentaneamente a Ghitina la lucidità; dovremo proteggere il piede da infezioni ed aspettare che la natura compia il suo corso. Si, la natura ha i suoi meccanismi di difesa che noi cercheremo di sfruttare.
Un albero quando ha un ramo malato, non muore, ma fa morire quel ramo, lo secca per poi farlo cadere. Così abbiamo deciso di fare, aspettare….. e controllare che la malattia non si estenda a tutto l’albero. Fare in modo che l’albero non soffra e poi quando ormai il ramo sarà secco e privo di vita recidere il ramo.
Le infermiere la seguono giornalmente, periodicamente saliamo insieme. Torno volentieri in quella casa, c’ è sempre un’accoglienza famigliare. Lì ci fanno sempre sentire importanti.
Trascorrono mesi, la natura ha ormai fatto il suo decorso. Il ramo ha raggiunto il giusto stato in cui si può recidere. La figlia è stata una nostra preziosa collaboratrice, metodica, vigile, attenta. Con l’ infermiera mi accordo per la fatidica data, avvertiamo la figlia ed al mattino presto siamo da lei. Bruna,l’ infermiera di turno,passa a prendermi con la macchina e durante il viaggio ognuno di noi esterna all’ altro i propri timori. Questa volta il viaggio è lento. Bruna non preme sull’ acceleratore, dobbiamo parlare. Cerchiamo di valutare le difficoltà e le complicanze che possono presentarsi e darci già una soluzione per affrontarle. Arriviamo sotto casa, prima di scendere dalla macchina una lunga occhiata fra di noi ci dà coraggio.
. “Andiamo”. Diciamo in simultanea.
Non sto a raccontare ciò che facemmo, ma ricordo Bruna che mi porgeva bisturi, pinze e forbici. Ma soprattutto ricordo il braccio flesso con la sua mano guantata, rivolta in alto, come ci chiede la carità, sulla quale io posavo, su una garza, i pezzi di “ramo” e la sua fronte corrugata che li osservava. Ghitina era tranquilla, avevamo coperto tutto il campo operatorio ai suoi occhi. Non aveva sentito assolutamente alcun dolore. Terminata l’ operazione abbiamo smontato il campo operatorio ed abbiamo fatto vedere a Ghitina il suo bel piede bendato di nuovo le dico:
“Allora come va, tutto bene.”
Ghitina si guarda il piede e, dubbiosa, mi risponde:” Dutur, sta vota a taieme le ungie ure andà un po’ pì profond né.” (Dottore, questa volta a tagliarmi le unghie è andato più a fondo, vero.)
Risata liberatoria. Anche in quella circostanza Ghitina aveva avuto il “suo colpo di classe”.
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