Paolo Trenta “La postura narrativa. I modi di essere della cura”
A. Introduzione
“La postura narrativa: i modi di essere della cura” con introduzione di Stefania Polvani, è un’opera densa e intensa, fondamentale per chiunque operi nel campo della medicina narrativa (MN). L’autore, Paolo Trenta, d’ora in poi Paolo, esplora in profondità il concetto di “postura narrativa” (PN), illustrando come essa possa trasformare la pratica clinica e migliorare la relazione per entrambi curante e curato. Utilizzo il termine “curato” piuttosto che paziente o malato per indicare che, seppure la PN qui si coniughi all’interno della Medicina, esiste al di là e più in alto della medicina una “postura della cura” nella quale la cura è un vero e proprio paradigma relazionale che poi trova all’interno della medicina una sua coniugazione professionale.
Non intendo, comunque, fare una recensione del libro: mi comporterò come un lettore che dopo una prima lettura riprende in mano il testo e scrive qualche annotazione a margine. Sono, quindi, annotazioni personali, attraverso le quali, come sempre accade, il testo letto non appartiene più all’autore e si forma la diade libro-lettore.
B. Prima annotazione a margine: una questione di identità
Il libro si rivolge a me in modo particolare: come colui che abita un mondo. Noi tutti abitiamo un mondo. Io, Massimiliano, abito un mondo, ma come lo abito? È il corpo che io sono, che plasticamente abita il mondo. Io sono, ben presto, anche un certo carattere: quell’atteggiamento che mi contraddistingue, fatto dei miei gesti, del mio sguardo sul mondo. Io sono questo atteggiamento. Cosa già nota ai greci, tanto che un frammento di Eraclito recita
«ἦθος ἀνθρώπῳ δαίμων — ethos anthropoi daimon»
(DK 22 B 119). Ethos, scritto con la eta, significa appunto carattere: «per l’uomo il carattere è il demone». Quindi, io, Massimiliano, il corpo che sono e il carattere che possiedo e che mi possiede, abito il mondo e lo abito contraendo abitudini. “L’habitus” di cui mi parla il libro è un altro modo di dire ethos, – questa volta scritto in greco con la epsilon – in quanto abitudine.
Questo modo abituale è la mia postura. Conoscere la mia postura abituale, il modo in cui abito e guardo il mondo, significa mostrarmi chi sono e il libro, in tal senso, interpella la mia identità e mi chiede: “Chi sono io, in quanto postura”?
C. Seconda annotazione a margine: una questione etica
Il testo mostra come, inconsapevolmente, io sia in grado, quasi fossi un camaleonte, di adattare il mio habitus ai colori dei vari campi sociali che attraverso. Senza accorgermene, indosso un habitus adeguato al contesto in cui mi trovo. A questo punto l’opera suscita una domanda cruciale: oltre alla natura camaleontica e inconsapevole dell’habitus e alle ragioni socio-psicologiche che mi portano ad adattare un atteggiamento in un determinato contesto, esiste forse una postura nella quale dovrei essere per il suo valore intrinseco? Una postura che valga non perché è utile, rassicurante o socialmente accettata, ma perché è essa stessa un valore?
Il libro mi ha condotto nel territorio dell’etica. L’etica, infatti, tenta di rispondere alla domanda “Come dovrei vivere la mia vita?”. Non si tratta di una domanda teorica, poiché la risposta determinerà il mio sguardo sul mondo e gran parte delle azioni che contano. Essa definirà una postura di fondo che ho scelto consapevolmente, perché desidero vivere la mia vita come si dovrebbe. Il libro mi propone la postura narrativa.
D. Terza annotazione a margine: una postura aperta
Il libro mi fornisce ragioni convincenti per cui la cura necessiti di una determinata postura. Sottolinea come la postura della cura sia possibile innanzitutto e per lo più all’interno di una trama narrativa. La narrazione, trattata nel capitolo 3, attraverso le sue “strutture” e “funzioni”, dà sostanza alla postura, traducendola in azioni e gesti concreti che migliorano le relazioni e gli esiti dei trattamenti.
Ringrazio il testo per aver differenziato la narrazione in struttura e funzione, perché mi permette di cogliere due modalità narrative di avvicinarsi alla medicina e al territorio della cura. L’attenzione alla struttura rimanda ad un approccio narratologico che approfondirà la storia della relazione come testo. Il richiamo alla funzione della narrazione risuona in un approccio che esorbita dal testo per affrontare il significato dell’esperienza dello stare male.
Non volendo spoilerare la definizione di postura narrativa (la troverete da pagina 43 in poi) ne sottolineo la sua intrinseca apertura. Si tratta infatti di una postura aperta. Per comprendere appieno il concetto di “postura aperta” nella pratica clinica, mi sono immaginato in un luogo familiare, reso più sicuro dopo aver chiuso la porta a più mandate. La postura narrativa richiede che io apra questa porta in un gesto che non è solo simbolico, ma rappresenta un cambiamento profondo nel mio atteggiamento cognitivo ed etico.
Aprire la porta non significa dare una sbirciata fuori e richiuderla rapidamente con un certo sollievo. Significa essere disposti a mettere in discussione le proprie abitudini e certezze. Significa accettare che, per migliorare la cura che offro, devo essere pronto al confronto con ciò che non mi è familiare e che potrebbe sembrare pericoloso. Una volta aperta la porta, quindi, devo avere il coraggio di attraversarla. Questo movimento implica uscire all’esterno, esplorare nuovi territori, scoprire nuovi approcci e modi di essere nella cura. È un invito all’avventura intellettuale, emotiva e pratica. E’ un preludio al terzo movimento charoniano della MN: la connessione.
E. Quarta annotazione a margine: il laboratorio come un luogo
Il libro prosegue e mi delinea i sei elementi essenziali per costruire una postura narrativa aperta. Sono: “l’attenzione”: quella tensione che ci muove verso l’altro e che parte dall’essere sempre in mezzo ad esseri umani, dal nostro inter-esse; “l’empatia” che ci permette di percepire le emozioni altrui senza farle proprie e “l’emotività” che non è da soffocare, ma da gestire e presuppone una cura di sé; lo “sguardo che ha cura”, che non è solo esercizio sensoriale visivo, ma significa uno sguardo sull’altro e la sua storia, “l’ascolto attivo”, conditio sine qua non per l’ultimo elemento: “il dialogo”. Tutti concetti così facili da apprendere e così difficili da mettere in pratica. E’ necessario tempo, disponibilità, sistematicità e formazione. Questo mi racconta l’ultimo capitolo (cap. 11). Tra le pratiche formative, i laboratori esperienziali narrativi, che Paolo ha affinato nel tempo, ne rappresentano l’habitat naturale. Trovo assonanze tra il laboratorio esperienziale e la “radura” dove metaforicamente Rita Charon collocava la MN: un ecosistema dove discenti e docenti a volte si confondono tra loro e dove le reazioni chimiche trasformative sono innescate da catalizzatori chiamati facilitatori.
F. Quinta annotazione a margine: quando la porta è aperta
Dopo la conclusione, il libro mi porta verso un’appendice dove sono contenute delle storie. Ho scritto a margine: «il termine “appendice” non si addice alle storie che concludono il volume, sia in senso etimologico: qualcosa che pende e neppure in senso medico». Conoscendo Paolo, si tratta certamente di una scelta dell’editore che, come sempre, separa l’intero di un testo in capitoli, conclusioni e appendici. Allora, ho deciso di considerare il termine come quei “romanzi d’appendice” che una volta venivano pubblicati a puntate e che, spesso, contenevano colpi di scena. Ecco l’appendice di questo libro è piena di colpi di scena che sono avvenuti quando si è tenuta la porta aperta e si ha avuto il coraggio di avventurarsi fuori. Raffaella la conoscevo già, Cristina, Tania e Maristella ho potuto conoscerle recentemente, ma le loro storie di cura, che vicono e fanno palpitare le ultime pagine del libro, mi hanno donato una prospettiva ancora più profonda della loro personalità. È questo il segreto che custodiscono le storie del libro di Paolo: nel raccontare la cura, non possono fare a meno di illuminare la trama interiore di chi le ha scritte.
Massimiliano Marinelli
Centro Studi SIMeN
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