Il linguaggio dei dottori
A cura di Sebastiano Castellano
All’inizio di agosto del 1907, il giovane Hans Castorp di Amburgo arriva a Davos nel cantone svizzero dei Grigioni. Partito tre giorni prima dalla sua città al livello del mare è salito in treno a milleottocen-to metri per visitare il cugino Joachim Ziemssen, da sei mesi al Sanatorio Internazionale Berghof. Pensa di fermarsi tre settimane.
È l’inizio di una lunga storia. Thomas Mann la racconta in Der Zauberberg, pubblicato nel 1924, variamente titolato nelle edizioni italiane.
Pur riconoscendo i limiti di una lettura frammentaria del complesso romanzo, ritengo interessante considerare alcune unità narrative con lo scopo di riflettere sul non meno complesso sistema delle cure. I dialoghi tra il giovane Hans e i medici del sanatorio, ad esempio, rimandano a caratteristiche e difficoltà anche oggi presenti nella comunicazione tra i curanti e i malati.
Due incontri
La sera stessa dell’arrivo Hans, senza rendersene conto, ha un esempio del potere che si nasconde nelle parole.
Dopo la cena Joachim lo presenta all’assistente del direttore. Il dottor Edhin Krokowski l’accoglie con un sorriso cortese: Benvenuto tra noi, dice dandogli la mano. Non è un benvenuto senza condizioni perché subito dopo chiede se sia venuto al sanatorio come paziente.
Hans risponde di essere in visita al cugino e di sentirsi, grazie al cielo, perfettamente sano.
La risposta non piace al dottore. Davvero? dice, allora lei è un’apparizione ben degna di studio. È la prima volta, dice, che incontra un uomo perfettamente sano.[1]
Hans aggiunge di non avere intenzione di profittare dei trattamenti fisici e psicologici offerti dal sanatorio. Senza nascondere il malcontento il dottor Krokowski mette precipitosamente fine al colloquio. Augura a entrambi la buona notte e ad Hans insinua nella cortesia dell’augurio il dubbio di un pericolo: Allora dorma bene, signor Castorp … in piena coscienza della sua salute immacolata! Dorma bene e arrivederci!
Stanco per il viaggio, Hans Castorp va a dormire, tranquillamente certo di essere una persona sana. Gli sfugge l’avvertimento nascosto nelle parole del dottore: è meglio non fidarsi dell’esperienza personale riguardo al proprio star bene e al proprio star male. Krokowski ha voluto convincerlo che la salute non è l’ordinario nella vita degli uomini. La cosa strana, l’eccezione, non è la malattia, ma il prodigio della salute. Sentirsi bene è l’illusione di chi si accontenta dell’apparenza, e bisogna pensare di essere sempre, almeno un po’, ammalati. È necessario allora affidarsi a chi conosce le complicazioni di quell’oggetto misterioso che è il corpo umano e sa come si tiene in ordine quel poco di ordine che è possibile tenere.
Il mattino seguente Hans Castorp incontra per caso il direttore del sanatorio. Il dottor Behrens sbriga con molta enfasi le convenzioni d’obbligo. Subito dopo porta l’improvvisato colloquio nell’ordine professionale e riduce a una le infinite prospettive possibili negli incontri tra persone; quella in cui lui è agente e l’altro è paziente. Certo della propria competenza in fatto di segni gli basta uno sguardo per un’inferenza diagnostica che immediatamente rivela. All’uso del linguaggio settoriale aggiunge una prossimità sconveniente. Oltrepassa non autorizzato lo spazio che protegge l’intimità personale e si permette, come solo durante la visita medica è consentito, di toccare lo sconosciuto.
Abbassa una palpebra con il pollice e l’indice nella parodia di una visita. Gli è sufficiente per confermare il precedente azzardo diagnostico. Dice, come già aveva detto, che Hans è completamente anemico e ha bisogno di aumentare l’albumina. Certo di intervenire per il suo bene, gli prescrive regole di condotta per i giorni che passerà a Davos. Dovrà far conto di essere affetto da una forma leggera di tubercolosis pulmonum e comportarsi esattamente come ogni giorno da sei mesi si comporta il cugino ammalato.
Non attende risposta. Non pensa che le sue parole possano aver suscitato fantasie inquietanti. Non ci pensa e, non pensandoci, non ne sente la responsabilità. Si avventura in un lungo e immaginoso monologo che conclude con cenni di fisiologia delle alte quote. Soddisfatto dell’atto di comando con cui ha chiarito al nuovo arrivato le reciproche posizioni se ne va dondolando le braccia verso altri ospiti. Chiede a tutti se il sonno è stato buono, tutti rispondono affermativamente.
Anche questo giorno l’ha cominciato rappresentando la sua parte davanti ai suoi malati. Pensa ne siano rassicurati e che li rassicuri la concessione di avere anch’essi una parte nella quotidiana rappresentazione.
Entrambi i medici hanno colto un’ordinaria interazione sociale per imporre del tutto fuori contesto il ruolo dominante della loro professione. Krokowski si era tenuto sulle generali quando aveva espresso la sua diffidenza sulla realtà di essere in buona salute e di non aver bisogno di cura. Behrens ha compiuto il passo successivo. Ha individuato la falla che rende la cura necessaria.
Due linguaggi
Alla fine delle previste tre settimane al sanatorio, Hans Castorp, benché convinto di non avere che un fastidioso raffreddore, ha chiesto al direttore di essere visitato in occasione del controllo mensile del cugino. Per un’incertezza all’ultimo momento arrivano in lieve ritardo. Il dottor Behrens ne è visibilmente irritato. Invita Joachim a sbrigarsi e gli toglie di mano la scheda con le temperature giornaliere. La chiama certificato di buona condotta. Forse vuole aggirare la barriera del linguaggio tecnico. Di fatto dà esempio della leggerezza dannosa di cambiare nome alle cose. Se non si chiamano le cose con il loro nome se ne nasconde la concretezza e si nega la responsabilità del proprio dire. Le parole pronunciate dal medico hanno risonanza nell’ immaginazione dei malati. Riferirsi a un documento che riporta dati clinici come alla certificazione della buona condotta non è una spiritosaggine. Il malato subisce la malattia e la buona volontà non basta a prevalere sul suo evolvere. È una beffa e porta alla mente l’antica e non dimenticata colpevolizzazione dei malati, quando la malattia era associata al peccato e al disordine morale.
Durante la visita Behrens è attento e scrupoloso, non ha fretta. Controllato il grafico conclude che non ci sono miglioramenti rispetto a quattro settimane prima. Joachim non è disintossicato, dice, non lo è affatto. Chiede di certe fitte a destra, dove sentiva l’ilo iperfonetico. Va meglio, dice Joachim e il dottore passa all’esame fisico. Percuote il torace cominciando dalle parti superiori, tornando qualche volta su punti già considerati. Finita la percussione ausculta le stesse aree su cui prima aveva picchiato, chiedendo di respirare con diversa intensità e di dare qualche colpo di tosse. Non spiega né chiede, dà brevi ordini. Le osservazioni che ricava sono rivolte all’assistente che le annota, con la diligenza di un lavorante di sartoria. Poche parole, quasi mute all’orecchio del malato, bastano ai due medici per intendersi con precisione. Parlano del malato. Non gli parlano.
Al malato Behrens esprime infine le sue conclusioni. Mette in luce i dati incoraggianti. Tutto considerato, non va male. La situazione è sotto controllo, nei limiti del possibile. Si può sperare che prima della prossima visita mensile qualche miglioramento possa esserci.
Apparentemente tranquillo, Joachim chiede quanto si prolungherà ancora la sua degenza. Behrens si irrigidisce. Conferma che sarà ne-cessario un mezzo annetto, tutto quanto. Il tono è diventato frettoloso, svagato, un po’ sprezzante. Non c’è altro da aggiungere. Guarda per aria e chiama: Avanti, chi ancora vuole venire.
Viene Hans, che è un caso nuovo, non un controllo. È necessario raccogliere dati che indirizzino le opportune scelte. A parte questa differenza sia Joachim sia Hans sono, in quel luogo, corpi simili agli altri in attesa delle decisioni di chi sa e dispone.
Behrens avvicina Hans afferrandolo per un braccio, senza incontrare il suo sguardo. Ripete in ordine i passi della visita precedente. Ancora si muove con competenza e scrupolo. Dedica a ogni manovra il tempo necessario, tornando sui punti più significativi. In questa seconda visita parla con il visitato, gli chiede se avverte la diversità dei suoni della percussione, espone le sue considerazioni. Completa l’esame con una breve anamnesi familiare e patologica remota. Infine inquadra i segni che ha riscontrato in un ordine che permette di dare loro significato e pronuncia la diagnosi.
Dice di non aver trovato se non quello che si aspettava di trovare. Aggiunge di averne avuto il sospetto fin dal primo incontro. Il suo acume interpretativo, mai in riposo, già l’aveva messo in allerta riguardo allo stato dei polmoni dell’ospite di passaggio. Un’impressione ma, alla luce della sua esperienza, di una certa consistenza. Dopo la visita, i riscontri obiettivi, associati ai perduranti valori della temperatura e vagliati dal suo sapere di medico, fanno pensare con molta probabilità alla presenza di patologia.
È meglio che Hans non lasci il sanatorio. La probabilità che tragga beneficio dal prolungamento del soggiorno è alta. Alta è anche la probabilità di incorrere in qualche peggioramento se torna subito alla vita ordinaria. Behrens si sente di affermare che in questo secondo caso Hans sarebbe costretto a rientrare dopo breve tempo. Prospetta la situazione con precisione e, insieme, con enfasi retorica e metafore fantasiose.
La collezione di osservazioni è la premessa da cui trae la sua conclusione: C’è, in alto a sinistra un’area dove sento un raschio. È già quasi un fruscio e sicuramente viene da una lesione recente. Non intendo adesso dire che si tratti di un focolaio, ma certo è una zona umida. Se lei torna laggiù in queste condizioni, per l’intero lobo polmonare sarà una rovina.
Si compiace della conferma delle sue previsioni ma non dà per scontato il risultato attuale. Forse non si tratta di un focolaio. Ma la linea tra salute e malattia non è tracciata con un segno netto e Behrens sceglie la prudenza. Prescrive qualche settimana di riposo a letto e, più avanti, un esame radiografico.
La visita è finita. Con l’impazienza un po’ irritata di chi vuol chiudere il discorso senza intralci, va alla scrivania e scrive su un foglio, a testa bassa.
Con Hans, che inizia il percorso diagnostico, si è sforzato di essere esauriente e di spiegare quello che c’era da spiegare. Per consolidata abitudine ha attribuito alla comunicazione del programma terapeutico la natura di comando, senza preoccuparsi di convincere e senza considerare la possibilità di contraddittorio. Sicuro nella sua funzione di prescrittore non può pensare che sorgano obiezioni e considera la richiesta di visita implicito consenso alle conclusioni cliniche e alle indicazioni che dalla visita sono derivate. Non verifica quanto l’interlocutore abbia compreso né se sia consapevole di quel che c’era da comprendere. Se lo coglie un dubbio, riguarda l’ottimismo della prognosi. Nemmeno un pensiero sulla effettiva efficacia della comunicazione.
Con Joachim è stato più sbrigativo. Non ha colto la sua sofferenza per la prolungata esclusione dalla vita fuori dal sanatorio. Vago e sfuggente ha contrapposto all’incertezza di Joachim sul proprio futuro la superflua certezza che la degenza al sanatorio non è una carcerazione ed è preferibile al lavoro nelle miniere siberiane.
Sempre così, il dottor Behrens. Conosce il suo mestiere e ha a cuore il bene del malato. C’è tuttavia qualcosa che stona nelle interazioni, di parola e di atteggiamento. Parla con il malato senza ascoltare o, ascoltando, fraintende. Indulge a chiacchiere incoerenti. Chiama certificato di buona condotta la cartella delle temperature, come altre volte ha chiamato sigaro di mercurio il termometro. È il suo vocabolario. Sopra le righe, accenna senza dire. È la maschera che il professionista spontaneamente indossa per sottrarre l’uomo alla pena di chi ha di fronte. Forse è questa, in parte, la spiegazione della distanza che crea tra sé e il malato. Pensa di fare tutto quello che gli è richiesto: scoprire il male nascosto, provvedere a rimuoverlo. Ma il malato che di quel male soffre è solo in superficie una persona. Di fatto è un oggetto di studio e un problema da risolvere. La sua storia emerge solo nei tratti più banali e, infine, non interessa.
Sia il linguaggio tecnico, preciso e conciso, sia il linguaggio retorico, vago e ridondante, distolgono dal dialogo franco, rispettoso e costruttivo. Esprimono indifferenza per la vicenda umana che il curante è chiamato a condividere. Chiudono la bocca al malato, lo distraggono, non danno spazio alle sue parole. Impediscono quella relazione tra alleati che crea fiducia, dà senso a quel che accade, rafforza la resistenza alla malattia, ne rende possibile l’accettazione.
La funzione operativa del linguaggio
Qualcosa è cominciato fin dal primo incontro con il dottor Krokowski.
Prima di incontrare Krokowski, se qualcuno gliel’avesse chiesto, Hans Castorp avrebbe detto senza esitare di essere in buona salute. Lo pensa anche dopo. Il lieve malessere che sente è dovuto al lungo viaggio e al cambio di clima e di altitudine. Passerà dopo una notte di sonno. La reazione del dottore però, entra segretamente nei pensieri. Quando, il mattino dopo Joachim gli rivolge parole rassicuranti: Tu sei sano, puoi fare quello che ti pare, Hans non reagisce con l’impulsiva sicurezza della sera precedente. Percepisce qualcosa di malato nella sua salute e risponde: Sano, è vero, a parte l’anemia. E a Settembrini dice di essere di passaggio, di essere diverso dagli ospiti residenti ma anche, a pensarci bene, di non avere, nemmeno lui, una robusta costituzione.
Krokowski ha parlato in generale, Behrens è stato esplicito. Entrambi, ricorrendo inopportunamente al loro sapere e al loro ruolo, hanno cercato di trasformare l’incontro con Hans in un rapporto di dipendenza. Hans si muoveva da osservatore, esterno alle dinamiche del sanatorio. I dottori hanno riconosciuto in lui un elemento fastidiosamente indefinito e potenziale fonte di disordine. Hanno inteso disciplinare la sua presenza e assegnargli un posto riconoscibile nella tassonomia che inquadra le presenze al sanatorio. Le loro parole non hanno solo trasmesso informazioni. Hanno stabilito l’ordine in cui è concesso muoversi nell’ospedale.
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La trasformazione dell’identità si completa con la pronuncia del giudizio diagnostico, ancora incerto ma già di gran peso. I termini che compongono l’enunciato di una diagnosi non si limitano a segnalare un disordine del corpo e a consigliare gli opportuni rimedi. Il breve tempo necessario per pronunciarli è sufficiente a trasformare l’identità di una persona, il suo modo di stare con se stessa e con gli altri. [2]
Non è ancora certo che il giovane Hans Castorp abbia una malattia, ma già il giovane Hans è un malato. Pensa al futuro con incertezza. Deve assumere il giudizio medico come principio ordinatore della sua visione del mondo. È tenuto a curarsi e ha bisogno, per farlo, dell’aiuto di persone esperte. Può esonerarsi da un certo numero di obblighi e di responsabilità sociali. Diverso sarà lo sguardo che gli altri poseranno su di lui.
Conclusione
La breve e preliminare analisi di pochi dialoghi tra medici e malati di un grande romanzo del Novecento illustra la gamma di implicazioni che portano le parole dei curanti oltre l’apparenza della loro esplicita funzione colloquiale o informativa. Ci si può chiedere perché riflettere sulle parole e sui comportamenti di medici e di malati vissuti, nella finzione letteraria, più di cento anni fa. In questi cent’anni le conoscenze e gli strumenti su cui si fonda la pratica medica sono cambiati, si sono potenziate le risposte che i medici sanno dare, sono cambiati i malati e le richieste che rivolgono ai medici.
Immutate restano le attese di ascolto dei malati e i meccanismi di risposta dei medici.
Troppo spesso i messaggi trasmessi con parole, gesti e posture cooperano ancora, ciascuno sul suo piano, a rendere l’asimmetria epistemica e operativa della relazione tra curante e curato una forma di distanza e di potere. Utile se si vuole mantenere il controllo delle relazioni, del tutto inadatta al coinvolgimento consapevole del malato nel processo di cura. [3]
Note
1. Sedici anni dopo, un anno prima della pubblicazione di Der Zauberberg, il dottor Knock avrebbe espresso lo stesso concetto davanti al pubblico della Comédie degli Champs-Elysées: Les gens bien portants sont des malades qui s’ignorent.
J. Romains, Knock, ou le Triomphe de la médecine, Gallimard, Paris 1923, I,
2.Si dice performativo il linguaggio con cui il parlante compie un’azione con l’atto stesso del parlare. Ad esempio quando un giudice dice ti assolvo il destinatario delle sue parole si trova veramente libero da ogni accusa. Allo stesso modo si compiono azioni con espressioni come ti condanno, ti pro-metto, ti perdono, scommetto, etc.
J.L. Austin, How to do Things with Words, 1962, trad. it. di C. Villata, a cu-ra di C. Penco e M. Sbisà, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 1977.
Per una disamina del concetto nel linguaggio giuridico, facilmente estendibile ad altri domini, si veda: G. Carofiglio, La manomissione delle parole, Rizzoli, Milano 2010, pp. 23-36.
3. I concetti medici cambiano da cultura a cultura ma la componente psicosociale rimane la stessa.
[…] Qualunque paziente è ansioso di trovare una soluzione al proprio ma-lessere e cerca sollievo; per fare questo interagisce con un medico e alla fine riceve una terapia. È una sequenza di eventi che caratterizza tutte le culture a prescindere dai concetti biomedici, dalle visioni filosofiche e dalla pratica medica.
L’autore
Sono medico ospedaliero in pensione: ginecologo, poi direttore sanitario. Mi sono sempre interessato all’aspetto etico, metodologico e relazionale delle interazioni di cura. Negli ultimi dieci anni ho fatto parte di un gruppo di medici narratori veronesi. Dai nostri incontri è stato ricavata una raccolta di esperienze: I medici si raccontano, Guerini, Milano 2016. In particolare ho dedicato le mie ricerche agli stimoli di riflessione offerti dalle trame e dai personaggi della letteratura. Sono piemontese, laureato in filosofia e vivo a Verona
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